Nel 1902 in Strada Maggiore con tredici coltellate veniva ucciso il conte Francesco Buonmartini, genero del professor Augusto Murri. Un giallo che fece il giro del mondo e che nel 1974 Bolognini portò sul grande schermo. Ma ad oltre un secolo di distanza molti dubbi non sono ancora risolti
di Claudio Evangelisti
(pubblicato nel numero uscito nell’estate del 2016)
Hanno scritto in tanti del delitto Murri, dal 1902 a oggi, che si potrebbe allestire una parete della libreria Feltrinelli a Bologna. Proprio lì a pochi passi dalle due Torri, nel pomeriggio del 2 settembre 1902, in Strada Maggiore 39, venne rinvenuto il cadavere del conte Francesco Buonmartini marito di Linda, figlia prediletta del Professor Augusto Murri, considerato uno dei più grandi clinici del suo tempo. Il clamoroso fatto di sangue scatenò l’opinione pubblica dell’epoca: dell’intricata vicenda se ne occuparono i giornali di tutta Italia e quindi anche la stampa estera.
E’ la morbosa trama del delitto, le sue implicazioni politiche e morali, ma soprattutto la fama dei protagonisti ad appassionare i lettori che vedono squarciarsi i veli che coprono la vita privata dell’alta borghesia. Ai giorni nostri, la storia della famiglia Murri è diventata celebre per merito del film Fatti di gente perbene, diretto da Mauro Bolognini nel 1974 e vincitore del David Donatello come migliore film e del Nastro d’argento per i migliori costumi. Eccezionali interpreti ne sono Fernando Rey ,Giancarlo Giannini e Catherine Deneuve.
LA RICOSTRUZIONE DEL DELITTO
Il 2 settembre 1902, dall’appartamento di Linda Murri proviene da giorni un odore insopportabile. La portiera non sa che fare anche perché la famiglia dovrebbe essere ancora in vacanza. Tullio Murri, fratello di Linda, si reca in compagnia della portiera presso l’appartamento della sorella, constata anche lui l’odore nauseabondo, ma non ha la chiave. Così chiama la polizia che procede ad abbattere la porta. Nella camera da letto viene trovato il cadavere in decomposizione del conte Francesco Bonmartini, ucciso con una serie di coltellate. Ne vengono contate tredici. Linda e il conte Bonmartini erano di fatto separati dal 1899 e si scopre che il Buonmartini voleva trasferirsi a Padova con i figli, lasciando definitivamente la moglie e tutta la famiglia Murri. Il 10 settembre, una settimana dopo l’omicidio, dopo la fuga in Svizzera, Tullio Murri si costituisce ai carabinieri di Ala di Trento, mentre suo padre lo denuncia come autore del delitto, avvenuto a seguito di un colloquio degenerato in colluttazione. È arrestata anche Rosa Bonetti, donna di servizio di Linda e amante di Tullio. Infine, entra in scena anche la stessa Linda Murri, come mandante dell’omicidio. I giornali parlano di rapporti torbidi e relazioni incestuose. Tre giorni dopo l’arresto di Murri, viene fermato un giovane medico, Pio Naldi, che confessa di aver partecipato al delitto. Le indagini continuano e portano alla luce la relazione extraconiugale di Linda con il medico cinquantenne Carlo Secchi, allievo del professor Murri e amico di famiglia. Come se non bastasse, il 25 giugno 1903, anche Carlo Secchi viene arrestato come complice di Tullio Murri per un tentato omicidio per avvelenamento, risalente però ad alcuni mesi prima: la vittima designata sempre il conte Bonmartini.
IL PROCESSO E LE IMPLICAZIONI POLITICHE
Le indagini e il processo furono minuziosamente seguiti dalla stampa, con giornali che triplicarono le tirature, come il cattolicissimo l’Avvenire d’Italia, protagonista di una vera e propria crociata contro i Murri, colpevoli, prima ancora di essere giudicati, di rappresentare la borghesia progressista, laica, positivista e socialista dell’epoca. Fango anche sull’austera figura del Prof. Augusto Murri, titolare della cattedra di Clinica Medica all’Università di Bologna, padre dei due protagonisti del delitto: il giudice istruttore Stanzani tentò di accusarlo di complicità, nonostante la sua completa estraneità all’omicidio fosse evidente, cercando di dimostrare l’esistenza di un complotto di famiglia. Il giudice Stanzani era un cattolico osservante, uno che faceva la comunione tutte le mattine: Augusto Murri si era battuto per togliere l’insegnamento della religione dalle scuole. Lo storico Marco Poli rileva che molte testate giornalistiche denunciarono i metodi scorretti del quotidiano cattolico Avvenire, dopo aver deplorato la violazione del segreto istruttorio, dopo aver insinuato la complicità dei magistrati cattolici (e delle suore nel carcere) che avrebbero passato verbali, perizie e lettere private allegate agli atti e ogni altro tipo di informazione riservata. Negli atti processuali del “caso Murri”, conservati all’Archivio di Stato di Bologna, un faldone contiene le denunce sulla violazione del segreto istruttorio e le relative indagini che però non portarono ad alcuna conseguenza.
Si apre il processo, ma nel febbraio 1904 la Procura di Bologna chiede il suo trasferimento in altra sede per legittima suspicione. Sarà designata Torino, dove il processo inizierà il 21 febbraio 1905. Veleno, tradimento, torbidi rapporti tra fratelli, il processo sarà difficile e scandaloso: sei mesi di dibattito, 104 udienze e 420 testimoni. Le indagini, furono orientate più al coinvolgimento di tutti i Murri che a fare vera luce sul delitto, e il processo, che si svolse in un clima acceso con le cariche della cavalleria a disperdere i tafferugli che si creavano fuori del tribunale tra innocentisti e colpevolisti, si concluse con la condanna di Tullio Murri a trent’anni come esecutore materiale del delitto. Ma il figlio del professore uscirà dal carcere nel 1919. Carlo Secchi, riconosciuto complice del delitto, morirà in carcere nel 1910. Linda Murri non sarà riconosciuta come mandante e uscirà dal carcere dopo otto mesi, nel 1906, graziata da Vittorio Emanuele III. Molti diranno grazie all’intervento del professor Murri che, infatti, aveva guarito la figlia del re, la principessa Mafalda di Savoia, da una malattia ritenuta inguaribile.
L’ULTIMA VERITA’ SUL CASO MURRI
Nel 2003 dopo 100 anni si affaccia una nuova verità. A raccontarla è Gianna Murri, la figlia di Tullio, ritenuto per un secolo l’ omicida del Conte Bonmartini. L’ ormai ottantenne (all’epoca) Gianna ha trovato la forza e il desiderio di rendere pubblica la sua verità su quel grande e tragico evento. Nelle 140 pagine del suo La verità sulla mia famiglia e sul delitto Murri, viene svelato il nome del vero colpevole: un certo La Bella, facchino soprannominato il biondino, l’ amante della governante di Linda. Nella versione di Gianna Murri, suo padre Tullio, effettivamente, arrivò sul luogo del delitto dopo l’ omicidio, chiamato dal biondino, ma non fece nulla di compromettente. Infine, Tullio, uscito di prigione dopo 14 anni, iniziò a scrivere una memoria dove avrebbe raccontato la verità sul biondino che a sua volta, in fin di vita, confessò l’ omicidio a un prete. Ma di questo carteggio non c’ è più traccia, spiega la Murri, perché sua madre, la moglie di Tullio, sempre alla ricerca di denaro, lo vendette proprio a Linda, supposta mandante dell’omicidio. In più, Gianna Murri spiega che il papà Tullio si era caricato della pesantissima colpa non tanto per amore della sorella ma per non far soffrire il padre Augusto. Gianna parla di una “dipendenza emotiva dalla propria famiglia” . E infatti il famoso carteggio dove Tullio si dichiarava innocente doveva essere tirato fuori solo alla morte del padre. Impossibile stabilire, alla fine, quale sia la verità, ma proprio per questo il libro di Gianna Murri offre l’ occasione per rileggere una pagina sorprendente della storia giudiziaria del nostro paese.