Anche nell’arte le tracce delle epidemie del passato

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Dal “Pallione della peste” di Guido Reni conservato nella Pinacoteca bolognese fino al trionfo della morte in via San Mamolo dipinta da un anonimo nel “La peste del 1630 a Bologna” (la stessa raccontata dal Manzoni nei Promessi Sposi) esposta al Museo della Storia di Bologna

di Gian Luigi Zucchini

Terrorizzati dalle frequenti pandemie o pestilenze che di tanto in tanto infierivano su vaste aree del mondo, gli antichi popoli non sapevano chi incolpare né come reagire.

Fin dai tempi d’Omero, e anche prima, epidemie mortali si diffondevano improvvisamente, e allora ci si interrogava su che cosa mai si fosse commesso in offesa agli dei, come per la peste che colpì, durante, l’assedio di Troia, le schiere dei Greci, quando, come si racconta nella stessa Iliade, Apollo,“..irato.. destò…. nel campo un feral morbo, e la gente perìa: colpa d’Atride, che fece a Crise sacerdote oltraggio”. Si pensava quindi che il dio, irritatissimo, scagliasse uno dietro l’altro i suoi dardi divini, che colpivano a destra e a manca. e i guerrieri cadevano uno dopo l’altro in preda a febbri perniciose, come vennero definite molto più tardi queste mortali infezioni.

Erano disastri che fornivano spesso materia per racconti: orali dapprima, poi tramandati da generazione in generazione, con modifiche e interventi plurimi dell’immaginario e del fantastico; infine, con l’invenzione della scrittura, per poemi, racconti, cronache anche dettagliate, man mano che i mezzi di comunicazione conosciuti fornivano strumenti per illustrare con sempre maggiore chiarezza il fenomeno, creduto a lungo vendetta di qualche divinità offesa o punizione divina. Chi credeva aveva almeno il conforto della preghiera, e quando la pandemia di affievoliva o scompariva si facevano offerte, si organizzavano riti e si costruivano templi in ringraziamento e per futura memoria. Più frequentemente, dopo che la comunicazione fu resa più immediata con l’immagine, si utilizzava la scultura o, più frequentemente la pittura, per atto di devozione e omaggio alla divinità.

 

San Rocco dipinto dal Pamigianino

In ambito europeo, con l’avvento del Cristianesimo, si invocavano i santi e soprattutto la Vergine Maria. Non tutti i santi, ma alcuni che in qualche modo avevano a che fare con questi mortali fenomeni, come san Rocco o san Sebastiano, trafitto da frecce.

San Rocco in particolare era invocato contro la peste bubbonica, perché si racconta che anche lui fu colpito dal male ma poi guarì per intervento divino. Così il santo è rappresentato con una coscia scoperta, per mostrare l’orrendo bubbone infetto della peste, come si può vedere nella grande pala d’altare che si trova in San Petronio a Bologna, dipinta dal Parmigianino nel 1527. L’artista, che si trovava a Roma per lavori di pittura, fu travolto, come tanti altri artisti, dall’invasione dei Lanzichenecchi, che, dal 6 maggio di quell’anno, saccheggiarono e incendiarono per giorni e giorni la città, nel corso di quella terribile devastazione definita poi ‘sacco di Roma’. Fuggendo precipitosamente dalla città, il pittore si fermò un periodo a Bologna, e qui dipinse il “San Rocco e un donatore”, anche come ringraziamento per essere stato salvato dalla pestilenza, che infuriava a Roma e in Italia.

La peste a Bologna – anonimo 1630

Ma a Bologna esistono altre immagini, che dettagliatamente rappresentano scene di peste in città, Quella più descrittiva è il dipinto di un Anonimo, intitolato La peste del 1630 a Bologna, la stessa magistralmente descritta dal Manzoni nel capitolo XXXIV dei Promessi Sposi. Il dipinto si trova esposto al Museo della Storia di Bologna (Palazzo Pepoli, v. Castiglione, 8), e rappresenta Strada San Mamolo, in bella prospettiva fino alla porta, con apertura sui colli nello sfondo. In primo piano, la scena allegorica del Trionfo della morte; poi altre figure intente a trasportare malati o morti. Più avanti, un prete sta officiando, ritratto nel momento dell’Elevazione.

il pallione della peste – Guido Reni

Notissimo, e relativo ancora alla peste del 1630 (che non fu altro che la continuazione di quella iniziata tre anni prima), è poi il dipinto di Guido Reni intitolato Pallione della peste, che si trova nella Pinacoteca bolognese (v. Belle Arti, 56). Ricorda il cronista Gaspare Bombacci che in quel periodo “incrudeliva un’atroce pestilenza….Tutte le strade apparivano funestate da funerali, e ogni casa piena di lacrime e di spavento…”. Bologna era ormai una città “vedova e desolata”. Di fronte a questo terribile flagello, le autorità fecero voto alla Madonna del Rosario per essere liberati dal morbo, voto che fu sciolto il 27 dicembre dello stesso anno, con la realizzazione, ad opera del grande artista, della Madonna del Rosario e dei Santi protettori di Bologna: S. Petronio, s. Domenico, s. Francesco, Santi Procolo e Floriano, s. Ignazio di Lojola e s. Francesco Saverio. Si veda soprattutto la parte bassa del dipinto, dove il Reni ha raffigurati dei monatti che portano fuori dalle mura della città, su barelle e carrette, corpi infetti ammucchiati alla meglio, sia di persone già morte che malate. Difficile però sopravvivere in quelle condizioni: i pochi fortunati se ne tornavano a casa guariti, gli altri, restavano nei lazzaretti in attesa di una fine, che si annunciava quasi sicura, per essere poi inumati in grandi fosse comuni

particolare del dipinto di Guido Reni

L’ondata di questa peste si protrasse ancora a Bologna fino al 1633, facendo oltre 20.000 morti su 70.000 abitanti.

Ancor prima, una pestilenza assai più terribile si era abbattuta sulla città e il contado. Era la famosa ‘peste nera’ del 1346 e successivi, così chiamata per il colore nerastro e livido dei bubboni che gonfiavano le ghiandole soprattutto sotto le ascelle, nell’inguine e nel collo da cui fuoriusciva un pus nerastro e spaventosamente infetto. Questa pandemia colpì gran parte dell’Europa, e ne fa cenno il Boccaccio, che coglie l’occasione di quell’evento per ambientare, in una villa solitaria sui colli fiorentini, il suo Decamerone. A Bologna, la ‘peste nera’ provocò ben 25.000 morti, lasciando la città smarrita e in grande miseria, dalla quale non si riprese se non dopo decine di anni.

Tuttavia le pandemie imperversavano spesso, e nel corso di un secolo si succedevano anche a poca distanza le une dalle altre. Per la peste, questo ripetersi frequente del morbo era dovuto come è noto, al fatto che il batterio della peste, presente nelle urine dei ratti, passava da questi all’uomo per mezzo delle pulci e quindi, finché non fu eliminata l’origine del male, esso si ripeteva nel tempo.
Una prova di questi frequenti ritorni si rileva, ad esempio, del Borgo di San Pietro e zone circostanti; ne è testimonianza una tavoletta dipinta molto tempo prima da Lippo di Dalmasio figlio di Dalmasio, anche lui pittore, con l’immagine della Vergine e il Bambino, detta ‘Madonna delle febbri’ che si trova nella chiesa di Santa Maria Maddalena in via Zamboni, 47. Come coi riferiscono le cronache del tempo, si ebbe nel 1514 un dilagare di ‘febbri perniciose’. Si pregò intensamente la Vergine e si portò l’immagine dalla casa dove si trovava nella chiesa dove è tutt’ora, e il morbo scomparve, dopo aver provocato numerosi morti.
In seguito all’attuale infezione del coronavirus, questa immagine è stata posta al centro dell’altare, contornata da lumi e da una bellissima fioriera settecentesca , per i fedeli che possono così trovare, ancor oggi, conforto e speranza nella preghiera.

La storia dettagliata dell’immagine e della ‘miracolosa’ guarigione è raccontata nell’articolo “La Madonna delle febbri”, uscito nel n. 38 (luglio-agosto- settembre 2018) di questa rivista a cura di chi scrive.
Poi, nel 1527 ci fu una nuova pandemia nella zona, probabilmente una ripresa o continuazione di quella del 1514, tra porta Mascarella e via Zamboni, per cui si ricorse alla Madonna per avere aiuto e sostegno spirituale. Così, al cessare del contagio, la si volle ringraziare facendo costruire una statua, detta Madonna del Soccorso, nella omonima chiesa a Porta Mascarella, dove ancor oggi si trova, e che rimase miracolosamente intatta nonostante la totale distruzione avvenuta in un bombardamento aereo durante l’ultima guerra. Di questo evento resta un interessante documento visivo: si tratta di un’incisione a bulino dell’Accademico Clementino Gioacchino Pizzoli che rappresenta Maria tra angeli e santi e, in basso, il profilo lontano di Bologna, con cadaveri a terra qua e là e due monatti che trasportano una salma entro un sarcofago. L’immagine fu poi solennemente incoronata e di questo evento troviamo traccia nel dipinto di Francesco Brizzi Incoronazione della Beata Vergine del Soccorso, nella chiesa di San Petronio a precisamente nella Cappella dedicata a San Pietro Martire, già spettante all’Arte dei Macellai, che avevano offerto la ricca corona con cui il Cardinal legato Maffeo Barberini incoronò l’immagine. della Madonna del Soccorso, loro protettrice.

Altre pestilenze, “ch’apportavano doglie di testa, febre, siccità, grande delirio, sonno, vomito, tremore nelle membra, amarezza in bocca e calor grande nelle parti estreme” si ripeterono a Bologna nei secoli successivi: citandone solo alcune tra le più cruente, la cosiddetta ‘Peste di Marsiglia’ nel 1720; il cholera morbus del 1820 e soprattutto quello del 1855, la terribile influenza ‘spagnola’ del 1920, l’asiatica, del 1960, ed altre ancora.

In molti casi, il vaccino opportuno fu decisivo per l’eliminazione del morbo. Insegni la storia a chi, ancor oggi, nega la validità dei vaccini chiedendone sconsideratamente l’esclusione per sé e per i propri bambini.

Nel 1855, la città di Bologna fu investita da una violentissima infezione di colera, morbo terribile e molto doloro, di cui al tempo si ignorava l’origine e le cure. Su questo evento l’Archiginnasio di Bologna ha allestito una mostra, che si può vedere cliccando sul sito badigit.comune.bologna.it/mostre/colera. In quell’anno, lo storico e archeologo Giovanni Gozzadini, per sfuggire al colera che imperversava in città, si rifugiò a Ronzano, da dove scrisse la seguente lettera al conte Benassi Montanari, di cui riportiamo qui il contenuto:
“Quando cominciò l’epidemia ci rifugiammo in questo romitorio, il quale appunto fu fabbricato nel secolo XV quale asilo in tempi di peste e restò immune da quella che menò tanta strage nel 1630.
La Dio mercé conservò a Ronzano, in quest’anno funesto, la propria fama, ed oggi intono il cantico di ringraziamento. Nel crescere del morbo stabilimmo una rigorosa clausura e cessammo ogni comunicazione diretta colla città e coi cittadini, qui vi passammo alcuni mesi in una perfetta solitudine che non s’increbbe e non ponemmo piede fuori dall’angusto fondo.
25 novembre 1855”
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