Inverno, tempo da lupi…e da legna

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La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una vola

di Adriano Simoncini

L’invéren an l’à mai magnà e lòv / l’inverno non l’ha mai mangiato il lupo. Proverbio montanaro che ormai comprendono in pochi, perché l’inverno di oggi – se pure arriva – non è paragonabile a quelli di oltre mezzo secolo fa: significa semplicemente che prima o poi l’inverno sopraggiungerà in tutta la sua crudezza e nemmeno il lupo, il pauroso divoratore delle favole, potrà tenerlo lontano. E come e più del lupo l’inverno era temuto.

Perché la neve cominciava a cadere presto:

per Sen Martín
la név in ti spin
e sl’an gnè l’è d’avsin,

per San Martino (11 novembre)
la neve negli spini (delle siepi)
e se non c’è è vicina.

E l’inverno era terribilmente lungo. Infatti:

quent e neva in vètta a la fòia
in vén da cavèsen la vòia,

quando nevica sopra la foglia
ne viene da cavarsene la voglia.

Perché spesso succedeva che nevicasse sugli alberi non ancora del tutto spogli, tanto che il peso spaccava rami e tronchi. Tralasciando il tremendo inverno del 1929 – quando, per l’incredibile quantità di neve che s’era ammucchiata davanti alle porte, si dovette uscire di casa dalle finestre del primo piano – ricordo un fatto che fece scalpore in tutta la montagna. Un giovanotto di Sant’Andrea di Savena, si chiamava Tito, era andato in comune a San Benedetto a prendere le carte per sposarsi il giorno dopo, ma fu sorpreso sulla collina di Cedrecchia da una straordinaria tempesta di neve (un urvài): si smarrì nel turbinio dei fiocchi e fu soffocato e poi sepolto dalla bufera. Era il 29 novembre 1940, da non credere. Lo ritrovarono solo dopo due settimane di ricerche.

Un’approssimativa previsione meteorologica (vocabolo peraltro sconosciuto alla cultura contadina) si aveva già ai primi di dicembre:

Senta Bibièna
quarenta dé o ónna stmèna,

Santa Bibbiana (2 dicembre)
quaranta giorni (di brutto tempo)
o una settimana (di bello),

a seconda delle condizioni atmosferiche della giornata della Santa.
Previsione ribadita e ampliata dal seguente:

la név zgembrina
tri més l’ai cunfina
e se l’ai punta i pé
l’aié per sé,

la neve dicembrina
per tre mesi vi confina
e se vi punta i piedi
vi è per sei.

Inverni dunque paurosi e crudeli quelli di un tempo. Se volevi mangiare bisognava avere il cassone pieno di farina – di grano, di castagne, di frumentone – e prosciutti e formaggi in cantina, chi poteva, e uova da conservare nella calce, perché dalle galline non ne cavavi. E soprattutto bisognava scaldarsi col focolare e, più tardi, con la stufa (del termosifone non si conosceva nemmeno il nome). Ma per accendere il fuoco occorreva legna, tanta legna. Era dunque un affaccendarsi fin da agosto nelle macchie e lungo i fossi a raccogliervi quanto si sarebbe potuto bruciare: rami, radici, tronchi secchi e no, arbusti, rampicanti (vizèiber), tralci… Lo si diceva andér ai bachètt, andare ai bacchetti, cioè a raccattare quel che avanzava nel bosco dopo il taglio e la pulizia, e toccava anche ai ragazzi. Una lotta col tempo, coi concorrenti e coi padroni della terra e dei loro contadini. Che difendevano la proprietà con ira feroce.
Assicurata in qualche modo la sopravvivenza, l’inverno aveva anche momenti di serenità e allegria. Nei campi non si lavorava e dunque ci si poteva finalmente riposare dalla interminabili fatiche sopportate nelle restanti stagioni. Poi c’erano le veglie: le famiglie del borgo e dei casolari intorno si radunavano nelle stalle, al caldo delle bestie, per spagliare, trecciare, filare, fabbricare panieri di vimini. E intanto si chiacchierava: gli anziani raccontavano fatti, storie, favole… mentre i giovani amoreggiavano a parole sotto gli occhi di tutti. Ma questa è un’altra storia.

Articolo pubblicato nel numero dell’inverno 2009

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