Vita e morte del Pontefice Nero

0

di Claudio Evangelisti

Raccontare l’eccidio Arpinati ai bolognesi è come entrare in un campo minato. A distanza di oltre 70 anni il suo nome crea ancora imbarazzo. Questa ricerca storica è basata sull’intervista alla nipote di Arpinati e al reperimento delle fonti. Che la verità assoluta sui mandanti dell’omicidio emerga o meno, sarà una libera interpretazione del lettore che può non coincidere con quella degli altri. In estrema sintesi, come recita il titolo della celebre commedia di Pirandello: così è se vi pare

È metà maggio e sono andato a visitare Susanna Cantamessa, la nipote di Leandro Arpinati. Siamo nella sua tenuta di Malacappa dove, il 22 aprile 1945, vennero assassinati il potente e volutamente “dimenticato” Ras di Bologna, assieme al suo inseparabile amico Torquato Nanni, avvocato socialista e antifascista storico. Leandro Arpinati che nacque socialista, fu anarchico, diventò fascista e morì liberale, fu definito da Enzo Biagi “un fascista perbene“. Il ritratto che il famoso giornalista bolognese ne fa è estremamente interessante: “Carattere forte – scrive –  romagnolo, ex ferroviere che a forza di scuole serali arriva all’ università, che fa lo squadrista ma non ammazza, che picchia le camicie nere prepotenti, che protegge dei libertari, dei repubblicani, e cadrà un giorno accanto a un avvocato socialista. Non si può capire la vicenda di quest’uomo se non la si colloca tra i suoi amici, nella sua terra”. Arpinati era nato nel 1892 a Civitella di Romagna, a pochi chilometri dalla Predappio del duce. Il primo confronto tra i futuri capi del fascismo fu nel 1910, durante un comizio del giovane socialista Mussolini. A metterli in contatto fu Torquato Nanni, classe 1888, di Santa Sofia, stessa valle, che nel 1910 era mussoliniano ma che rimarrà sempre socialista.

Arpinati fu il primo tra gli squadristi violenti distinguendosi, il 21 novembre del 1920, nella guida all’assalto di Palazzo d’Accursio, il municipio di Bologna in mano alle sinistre: la spedizione provocò undici morti (tutti socialisti, tranne il consigliere liberale Giulio Giordani) e una sessantina di feriti. Innumerevoli furono nei mesi successivi le aggressioni a parlamentari socialisti prima e comunisti poi, case del popolo, sedi di partito, capilega, treni che trasportavano operai, singoli militanti, al punto che Mussolini gli inviò una direttiva: “limitare l’uso della violenza allo strettamente necessario e impiegarla cavallerescamente”.

IL MOMENTO D’ORO E LA CADUTA

Arpinati, che nella seconda metà degli anni Venti divenne l’uomo più potente e osannato di Bologna, divenne comproprietario del «Il Resto del Carlino»; fondò il più grande stadio di calcio d’Italia (il «Littoriale»); fu presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio nonché presidente del Coni e riunì tutte le associazioni sportive cittadine nella gloriosa “Bologna Sportiva”; attuò la riforma tranviaria con il raddoppio della rete; avviò un piano di costruzione di case popolari, edifici scolastici, pavimentazione della città e fognature; si dedicò a un nuovo piano di illuminazione delle strade, alla costituzione di una scuola superiore di commercio, all’avvio dei lavori per la funivia di San Luca, alla realizzazione dell’ospedale Pizzardi e della Clinica psichiatrica, alla costruzione di un nuovo aeroporto militare e a una quantità di altre iniziative che non ebbe uguale né prima né dopo di lui. La nipote di quello che fu prima podestà di Bologna, membro del Gran Consiglio del Fascismo, e poi sottosegretario agli Interni fino al 1933, ha ereditato lo spirito combattivo della mamma Giancarla, figlia di Leandro Arpinati e della nonna Rina Guidi Arpinati, moglie dell’ex gerarca, donna bolognese affascinante e carismatica. “In realtà mio nonno era un liberale, dice la nipote, fu molto amico di Mussolini nel 1931-32.” Lo scrittore Giordano Bruno Guerri scrive che: “in quel periodo, divenuto uno degli uomini più potenti d’Italia, Arpinati riferiva ogni giorno a Mussolini, che più volte dimostrò di averne vera soggezione, tanto l’altro lo trattava con franchezza”. Negli anni del sottosegretariato (1929-1933) si creò così anche innumerevoli inimicizie, esordendo con il rifiuto della busta segreta (di denaro) che, secondo tradizione, veniva erogata al Ministro degli Interni, di cui egli esercitava le funzioni. Il pretesto per allontanare un personaggio scomodo come Arpinati, lo fornì Achille Starace nuovo segretario del PNF che presentò personalmente a Mussolini una lettera-denunzia il 3 maggio 1933 articolata in 17 punti di accusa: in essa ad Arpinati, definito da Starace il pontefice nero, erano addebitate tra l’altro le amicizie con noti antifascisti (quali Mario Missiroli, Giuseppe Massarenti,Torquato Nanni), le attività contro il regime, le idee liberali e anticorporativiste. Arpinati, che definiva Starace “un cretino”, gli scrisse un breve biglietto «Se avessi avuto bisogno di un elemento per giudicare della bassezza degli uomini, tu me l’hai offerto; sei un mentitore e un vile». Mussolini obbligò così Arpinati a dare le dimissioni e lasciare l’incarico di sottosegretario il 1 maggio 1933.  Il 31 ottobre 1933 fu espulso dal PNF. Ritornato a Bologna e ritiratosi nella sua tenuta a Malacappa, presso Argelato, Arpinati venne sospettato di tramare contro Mussolini dopo che a Bologna furono diffuse ad arte voci che parlavano addirittura di un suo coinvolgimento, con il ruolo di «organizzatore occulto», nell’attentato al Duce dell’ottobre 1926 ad opera del giovane Anteo Zamboni. Fu arrestato nella notte del 26 luglio 1934 e venne inviato a Lipari per scontarvi cinque anni di confino. Il 19 luglio 1936 poté tornare a Malacappa, rimanendovi sotto stretta sorveglianza, agli arresti domiciliari nella sua azienda agricola. Il 14 giugno 1940 Il Duce fece sospendere la pena.

L’AZIENDA MODELLO DI MALACAPPA

Sta per piovere e la signora Susanna mi accoglie sotto la veranda della grande villa liberty, nascosta dal verde e dall’argine del fiume Reno che scorre a pochi metri da noi continuando ad alimentare quella che all’epoca fu un’azienda modello. Proprio in questa location furono girate alcune scene del film “Dancing Paradise” di Pupi Avati con la signora Susanna che ricorda con simpatia gli attori Carlo delle Piane e Gianni Cavina. Insieme continuiamo a ripercorrere la complessa vicenda umana e politica di quest’uomo che fu grande amico e braccio destro di Mussolini e sul quale rimangono molteplici ombre. Arpinati, nel febbraio del 1943, si recò più volte a Firenze nel vano tentativo di convincere il principe Umberto di Savoia ad effettuare un colpo di stato, con la presa del potere insieme agli antifascisti e combinare una pace separata con gli alleati. Il 7 ottobre 1943 dopo essere stato arrestato dal re e poi liberato dai tedeschi, Mussolini invitò Arpinati a aderire alla Repubblica Sociale Italiana, ma il suo vecchio amico rifiutò categoricamente: “ora faccio l’agricoltore” fu la sua risposta. Con l’aiuto di Torquato Nanni nascose invece nella sua tenuta ex prigionieri alleati e il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) gli garantì protezione: “Malacappa era diventata un crocevia”, racconta la signora Susanna, “oltre a ricevere gli alti ufficiali tedeschi, la generosità di Aleandro Arpinati e di mia nonna Rina, l’aveva trasformata in un centro di raccolta per sfollati e sbandati. Oltre alla famiglia con sette persone di Torquato Nanni, mio zio, c’era la famiglia di Mario Lolli, c’erano famiglie di contadini della zona e il nonno, oltre a ospitarle, aveva fatto costruire con il loro aiuto una grande conigliera per conigli d’angora, che le donne accudivano e dei quali pettinavano la lana allora particolarmente preziosa. Nell’azienda e nei vasti campi lavoravano 100 persone, tutte con il libretto di lavoro in regola. E c’erano, tra gli altri, nascosti in solaio, due paracadutisti italo-americani. I due, Augusto Di Luzio e Giuseppe Toffoli erano stati lanciati dall’OSS (servizi segreti americani) con una radio trasmittente”

ARPINATI SONO IO

Nonostante tutto questo, il 22 aprile del 1945 avvenne la tragedia che la figlia Giancarla Arpinati raccontò in quello che si potrebbe definire il film della memoria. Il giorno prima, 21 aprile, passarono sulla strada provinciale i primi carri armati alleati. La prima a passare fu una jeep con a bordo dei giornalisti americani. La giornata trascorse felicemente e i primi sfollati cominciarono a ritornare alle loro case; la notte trascorse insonne, con Arpinati e Nanni a discorrere dei loro progetti politici e personali. La mattina dopo, 22 aprile, erano rimasti solo le famiglie Arpinati, Nanni, l’amico segretario Lolli e i due agenti italo americani. E qui la nipote Susanna Cantamessa mi rivela un particolare inedito: “negli anni ’80 quando tornammo da Milano per stabilirci definitivamente a Malacappa, venne un operaio ad installarci il serbatoio del GPL. Costui si chiamava Magri e volle togliersi un peso dalla coscienza: confessò che il 21 aprile (il giorno prima del duplice delitto) nella casa di una signora di Malacappa si brindò all’imminente uccisione di mio nonno” tale rivelazione apre un nuovo squarcio sui probabili mandanti dell’efferato omicidio che fu premeditato e che venne attuato con le seguenti modalità: i tre amici stavano discutendo e passeggiando per il sentiero principale della fattoria mentre i due radiotelegrafisti si erano finalmente potuti recare dal barbiere del piccolo borgo, quando improvvisamente entrò un camioncino (requisito all’UNPA, la protezione antiaerea), dal quale scesero sei armati, quattro uomini e due donne; erano vestiti come militari, coi giubbotti kaki di tipo inglese che portavano i partigiani e in effetti erano appartenenti alla 7° brigata Garibaldi comandati da Luigi Borghi detto Ultimo; originario di Castelmaggiore, prima militava con i fascisti nella GNR e una volta catturato dai partigiani supplicò di essere risparmiato ed entrò nella brigata partigiana solo perché garantirono per lui i suoi due fratelli, uno socialista e l’altro comunista. Borghi poi fu accusato della strage dei sette fratelli Govoni. “Dov’è Arpinati?” chiesero. “Arpinati sono io”, rispose lui facendosi avanti. Uno dei partigiani puntò il mitra contro la sua fronte. “Dai, dai, spara” gridò una delle due donne. Arpinati scostò lentamente, con una mano, la canna del mitra dicendo: “Aspettate, ascoltate un momento!“. In quell’attimo Torquato Nanni si precipitò per fare scudo all’amico, gridando: “Ma cosa fate? siete impazziti?” Fu colpito da un secondo partigiano col calcio del mitra, steso a terra: poi il killer si piegò, gli puntò il mitra dietro l’orecchio e fece partire un solo colpo, mortale. Mario Lolli si era buttato contro un terzo armato, afferrando la canna del suo mitra, cercando di strapparglielo; fu ferito e tentò di fuggire verso casa, con alle spalle l’uomo che lo rincorreva e che lo colpì ripetutamente. Rimarrà a lungo steso dissanguandosi e solo perché più fortunato degli altri due amici, si salverà. L’assassino di Arpinati gli spara una raffica in pieno volto tanto che la figlia, poco dopo, quando si piegherà su di lui, non ne vedrà più il viso. Le donne si sono rifugiate in casa, le due partigiane gridano agli uomini di ammazzare tutta la famiglia e una di loro lancia una bomba a mano che colpisce Giancarla alla gamba e per fortuna non esplode. Gli uomini non dettero retta alle due esagitate e si fermarono a spogliare i cadaveri e il ferito di quel che portavano addosso, soldi, orologi. Susanna Cantamessa racconta che accorsero i due ragazzi dell’Oss che avevano sentito gli spari e così il gruppo se ne andò dopo aver salutato le donne della famiglia con il pugno chiuso. I due morti e il ferito furono dalle donne trascinati nella casa e per alcuni giorni i cadaveri rimasero insepolti perché, “coloro che avevano preso il potere proibiscono all’impresa di pompe funebri di fornire le bare”.

Mario Lolli stava per morire perché nessuno si azzardava a portare soccorso e fu salvato da un’ambulanza militare americana che lo trasportò in un ospedale vicino. Susanna racconta che il medico del paese non si presentò e che il solo personaggio ufficiale che nel pomeriggio arrivò, fu il parroco che benedisse i cadaveri. “Per fortuna che la famiglia Bersani si rese disponibile ad accogliere la salma di mio nonno nella loro cappella privata nel cimitero di Casadio. Poi nel 1971 il sindaco di Argelato acconsenti alla definitiva sepoltura nello stesso cimitero. Di quel periodo mia madre raccontava l’ostilità e gli sputi che riceveva dagli abitanti del borgo, uno dei quali è ancora in vita”.

L’EPILOGO

La radio di Bologna alla sera diede l’annuncio della fucilazione del “gerarca fascista Arpinati”. Nel giro di pochi giorni in quel drammatico e risolutivo aprile del 1945, quattro grandi amici, nati nello stesso fazzoletto di terra che hanno fatto la storia d’Italia per mezzo secolo, verranno tragicamente uccisi; Mussolini e Bombacci (quest’ultimo fondatore del PCI nel 1921), a Dongo. Arpinati e Nanni a Malacappa. Beffardo il destino per Torquato Nanni: fu ucciso dai partigiani dopo che nel 1922 Arpinati inviò a Santa Sofia, una squadra di fascisti bolognesi per salvarlo dal linciaggio da parte dei fascisti toscani. L’ex partigiano e famoso regista Bruno Vailati commenterà: “Nanni poteva tirarsi da parte, ha fatto un gesto da impulsivo e da romagnolo come lui era”. La verità sostanziale è che Arpinati e Nanni furono uccisi da un gruppo di gappisti comunisti che si sentivano legittimati a farlo. Non è chiaro se la decisione fu presa dall’alto o se l’esecuzione fosse compresa nella lista degli “agrari” da eliminare prima del ritorno alla legalità o chissà che altro. Ma gli esecutori furono in seguito protetti dal PCI di quel travagliato periodo, col metodo classico della fuga organizzata in Jugoslavia.

Fonti: Giancarlo MazzucaLuciano FogliettaSangue romagnolo; Giancarla Cantamessa Arpinati, Malacappa-Diario di una ragazza; Giordano Bruno Guerri; Brunella Dalla Casa.

Condividi con

About Author

Comments are closed.